11 Settembre 2021

Rebecca Solnit rifiuta di dialogare con me

Disastro dell'identitarismo: avrei dovuto intervistare la saggista americana al Festivaletteratura di Mantova ma a 24 ore dall'incontro lei ha disdetto, optando per uno speech senza contraddittorio. Le hanno detto che io sono "transfobica" e che si sarebbe messa in un guaio. Ecco le mie domande, che aveva voluto in anticipo: giudicate voi
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Quando ho annunciato su Twitter che avrei intervistato Rebecca Solnit al Festivaletteratura di Mantova, un'utente mi aveva messo in guardia: "Una transfemminista aperta al dibattito?".

Mai avrei immaginato che a 24 ore dall'incontro, senza alcun rispetto per il mio lavoro, Solnit avrebbe rifiutato il dialogo -optando per un breve speech senza contraddittorio- perché, a suo dire, io sono "transfobica".

Cara amica di Twitter, avrei dovuto ascoltarti.

Rebecca Solnit rifiuta di dialogare con me

Cose del genere sono capitate a molte altre, e molte volte. JK Rowling, una per tutte. Ma quando succede a te rimani senza fiato.

Le mie domande avevano come focus principale l’America oggi. Solnit le aveva volute vedere in anticipo: ho intervistato molta gente nella mia vita, ma pochissimi mi hanno fatto questa spiacevole richiesta (in ogni modo, le domande si possono leggere qui sotto). Poi però qualcuno ha detto a Rebecca Solnit che io sono una femminista trans-escludente, le ha segnalato il nostro Feminist Post, e lei ha avvisato gli organizzatori (non me personalmente) che non si sarebbe fatta intervistare.

Tolto il fatto di avere partecipato intensamente e personalmente alla lotta dei transessuali italiani nei primi anni Ottanta, lotta vittoriosa per i loro diritti; di avere fiancheggiato fin dagli albori il movimento Lgbt; quindi tolto il fatto che a Rebecca Solnit, per menzionare un suo celebre libro, quelli che “hanno spiegato le cose” le hanno spiegate proprio male, trovo la sua decisione deprimente ma allo stesso tempo illuminante, perché forse spiega bene l’America oggi, e in fondo era il risultato che volevamo ottenere. 

Un luogo di politiche identitarie esasperate, di tribù in conflitto permanente, dove due donne non possono parlarsi a viso aperto e pubblicamente perché, a detta di una delle due, i loro femminismi non sono compatibili.

Per "chiamare le cose con il loro nome", sempre citando un titolo di Solnit, il nome di questa cosa è “bavaglio” e non somiglia affatto a quello che lei scrive nei suoi saggi: li ho letti tutti anche se, come sa bene chi mi aveva proposto di intervistarla, non potrei dire che Solnit sia esattamente la mia passione. Ma Solnit è certamente una voce eminente, gode di un grande seguito, e mi era sembrato interessante poter dialogare con lei.

Abbiamo esperienza del no-debate praticato con fermezza dal mondo Lgbtq, l'abbiamo sperimentato anche in Italia con i sostenitori del ddl Zan che si sono metodicamente sottratti a ogni confronto: ma da Rebecca Solnit non me lo sarei aspettato.

Forse se oltre ai saggi avessi letto questo suo articolo di un anno fa, pubblicato dal Guardian, oggi sarei meno stupita dello sgarbo ricevuto:

"... le donne trans non rappresentano una minaccia per le donne cis-gender e il femminismo è una sottocategoria della difesa dei diritti umani, il che significa, mi spiace, che non puoi essere femminista se non sei per i diritti umani di tutti , in particolare altri diritti delle donne (...) non esiste una definizione univoca di cosa sia una donna; alcuni di noi nascono con parti del corpo assenti o non conformi, o con anomalie cromosomiche o ormonali (...) Non si tratta di avere l'utero o il seno o il ciclo o di partorire, perché le donne non sono un allevamento (e, scusate, non riesco a smettere di vantarmi della mia città: il primo uomo a partorire è stato a San Francisco). Alcune fra noi hanno subito mastectomie o isterectomie, come nel caso di Angelina Jolie, e sono abbastanza sicura che tutti accettino come donne in entrambi i casi; ed esistono tante altre varianti".

Mi sono chiesta in quali casi io avrei rifiutato di dialogare pubblicamente con qualcuno-a. Normalmente, essendo una persona curiosa degli altri, non mi sottraggo. Forse lo farei se la mia interlocutrice-ore mi avesse in precedenza gravemente offeso, o se fosse un-una nazista acclarato-a. Non credo di rientrare in questa categoria, anche se Judith Butler, concittadina di Solnit, in un recente e discussissimo articolo sempre sul Guardian in cui ha affermato che la categoria "donna" va ridefinita, ha definito neofasciste le femministe gender critical (di questo articolo riparleremo nei prossimi giorni, anzi ne parlerà la femminista pakistana Bina Shah). Probabilmente Solnit la vede come Butler.

In ogni modo: queste le domande che avrei posto a Rebecca Solnit, per chi volesse farsi un'idea: ci vedete qualcosa di offensivo o irrispettoso? Non parlarsi è sempre la peggiore delle opzioni possibili.

  1. Pensando a questo incontro immaginavo che avremmo parlato di America. Proprio oggi, a vent’anni  esatti dalle Twin Towers. Ma mai avrei immaginato che avremmo dovuto parlare di quell’America che nemmeno un mese fa ha lasciato l’Afghanistan, con tutto ciò che ne è seguito. Se Rebecca è d’accordo partirei proprio di qui. Vorrei che ci raccontassi con la tua viva voce l’America del dopo Kabul, e in particolare di come i democratici americani stanno vivendo l’iniziativa del presidente Biden e il colossale effetto domino che questa iniziativa sta producendo sullo scacchiere internazionale, a cominciare dall’enorme problema umanitario che l’Europa si trova ad affrontare
  2. Restando in America: in Europa sappiamo da sempre che l’onda lunga di quello che capita lì arriva sempre a lambirci, è solo questione di tempo. Ma la realtà americana di questi tempi è particolarmente difficile da decifrare e da interpretare: abbiamo assistito stupefatti alla rivolta di Capitol Hill, vediamo l’inasprirsi delle tensioni razziali, l’arroccamento nelle politiche identitarie… Se tu dovessi indicarci a quali fatti prestare attenzione per capire l’America oggi e la direzione in cui si muove, quali indicheresti?
  3. La tua autobiografia si intreccia con la consapevolezza della violenza con la quale, in tutte le sue forme, ogni donna fa i conti per il solo fatto di essere nata donna. In qualche modo tutta la tua vita, fin dalla prima infanzia, è attraversata dalla colluttazione con questa realtà di violenza. Nel libro parli della tua tendenza, fin da bambina, a nasconderti per non essere vista, seguendo l’istinto di sopravvivenza. Oggi sei una delle donne più visibili sulla scena intellettuale, e non solo americana. Non ti nascondi più. C’è stato un momento nella tua vita, e quale, hai capito che nasconderti non ti era più necessario? Da dove si trae la forza di sottrarsi al dominio maschile?
  4. Racconti che molte ragazze hanno il desiderio di essere uomini, di identificarsi con gli uomini, di essere dov’è il potere. E’ sempre stato il primo movimento dell’emancipazione, provare a essere come gli uomini, godere della loro stessa libertà. Oggi c’è un numero crescente di ragazze che prova a realizzare questo desiderio fin nella propria carne, parlo del fenomeno crescente delle giovanissime transessuali FtM. Tu che hai vissuto intensamente la cultura queer, con la quale ti dichiari in debito, sai bene che le FtM sono sempre state una rarità, oggi invece sono 7-8 casi su 10 di transizione. Come leggi questo fenomeno?
  5. Nei tuoi ringraziamenti menzioni proprio la cultura gay. Vorrei farti una domanda su questo, e anche una su San Francisco. I rapporti tra le donne e il femminismo e il mondo gay e queer sono sempre stati rapporti di scambio e di reciproco sostegno. Oggi ci sono molti indizi del fatto che questo rapporto si è incrinato, è diventato difficile e perfino conflittuale, il caso JK Rowling parla per tutti, ma ci sono anche le invettive antifemministe di Judith Butler, il conflitto sull’identità di genere, e così via. Che cosa ha provocato questo allontanamento doloroso? Il queer di oggi è lo stesso queer con cui ti dichiari in debito? E dove si trovano le ragioni per una ripresa del dialogo?
  6. A San Francisco dedichi molte pagine amorose, specialmente in Chiamare le cose con il loro nome, e parli della sua formidabile gentrificazione. Un tempo capitale globale della controcultura creativa, oggi San Francisco è centro propulsore di quello che Shoshana Zuboff chiama il capitalismo della sorveglianza. Lì, nella Silicon Valley, vive e opera il capitalismo più ricco e pervasivo e sregolato e invincibile che la storia umana abbia conosciuto. Come è stata possibile questa evoluzione? Ci sono elementi che legano quella controcultura con il possibile rischio di deriva antidemocratica che questo capitalismo porta con sé?
  7. Una cosa che dici ripetutamente è che i segnali del cambiamento nascono sempre ai margini e nell’ombra, e che si muovono progressivamente verso il centro con un movimento a tratti carsico, non sempre facile da leggere. La vera storia da raccontare, insomma, va attentamente cercata. E inviti a cogliere e a promuovere il cambiamento senza lasciarsi vincere dal cinismo e dalla sfiducia. Quali sono i segnali di cambiamento a cui oggi guardi con maggiore interesse?
  8. Un dispositivo di resistenza e di lotta, tu dici, è la precisione nell’uso delle parole. Dici che stiamo attraversando una vera crisi del linguaggio, una deregulation del significato con importanti conseguenze politiche. Mi pare che i social network, che per ragioni di profitto hanno tutto l’interesse a promuovere le fake news e a spostare i confini tra vero e falso siano uno dei principali campi di battaglia di questo lavoro sulle parole che il femminismo italiano della differenza ha sempre chiamato “lavoro sul simbolico”. Come e dove si fa questo lavoro politico?
  9. Un ottimo esempio della forza politica delle parole è proprio un neologismo di tua invenzione, nel libro Gli uomini mi spiegano le cose. Questo neologismo, mansplaining, non solo è stato inserito nell’Oxford English Dictionary, ma è entrato a fare parte del lessico delle donne di tutto il mondo (pag 220). La semplice nominazione di questa esperienza, abituale per ogni donna, è diventata immediatamente uno strumento di resistenza. Hai da raccontarci qualcosa su questo?
  10. Un altro dispositivo di resistenza e di lotta che tu indichi, un luogo in cui si produce il cambiamento è la vicinanza dei corpi che non può essere sostituita dalle relazioni virtuali. Ti riferisci anche alle semplici relazioni di vicinato, alle persone che si incontrano camminando -pratica su cui tu hai scritto molto- o facendo compere nelle botteghe sotto casa. Forse si potrebbero chiamare weak link, legami deboli, che invece hanno un grande potenziale di forza e di cambiamento. La pandemia ci ha messi a dura prova da questo punto di vista. Pensi che possa aver lasciato un segno duraturo nelle relazioni umane, che questa compresenza di corpi sia definitivamente compromessa?
  11. Sempre a proposito di dispositivi di lotta tu dici parole molto importanti sulla rabbia, spieghi che è ostile alla comprensione e che può essere un serio ostacolo alla promozione del cambiamento. Viviamo immersi e ingolfati dalla rabbia, che in buona parte viene indotta proprio per paralizzarci. Ma tu spieghi: "Nonostante sia convinzione comune che a guidare (il cambiamento, ndr) sia la rabbia, frequentando attivisti di ogni tipo ho potuto constatare che la militanza è in genere guidata dall'amore". Puoi farmi un esempio di pratica trasformativa ispirata dall’amore?
  12. Un tuo importante fronte di impegno è quello del cambiamento climatico, che definisci violenza su scala globale. La prima volta che se ne parlò è al club di Roma, 1968. Consentimi di osservare che gli americani non sono stati esattamente in prima linea su questo fronte. Ricordo ancora sbigottita, in un gelido inverno newyorkese, di avere visto dalla finestra del mio hotel gente che si muoveva seminuda nel proprio appartamento, con il riscaldamento a mille. Ora, dopo il terribile uragano Ida, Biden sembra avere annunciato il suo definitivo impegno su questo fronte. Pensi che siamo davvero a un punto di svolta?
  13. L’ultima domanda: dal tuo punto di vista qual è la storia più importante da raccontare oggi? Puoi anticiparci su che cosa stai lavorando?

Marina Terragni

HERE IN ENGLISH

Rebecca Solnit refuses to talk to me

Disaster of identitarianism: I was supposed to interview the American essayist at Mantua's Festivaletteratura but, 24 hours before, she cancelled the meeting, opting for a speech without a debate. They told her I was 'transphobic' and that she would get into trouble. Here are my questions, which she had wanted in advance: you judge.

When I announced on Twitter that I would be interviewing Rebecca Solnit at the Festivaletteratura in Mantua, one user warned me: "A transfeminist open to debate?". I would never have imagined that 24 hours before the meeting, with no respect for my work, Solnit would have refused the dialogue - opting for a short speech without a debate - because, according to her, I am 'transphobic'.

Dear Twitter friend, I should have listened to you.

Things like this have happened to many others, and many times. JK Rowling, for one. But when it happens to you, it takes your breath away.

My questions had as their main focus the situation of America today. Solnit had wanted to see them in advance: I've interviewed a lot of people in my life, but very few have made this unpleasant request (anyway, you can read the questions below). But then someone told Rebecca Solnit that I was a trans-exclusionary feminist, pointed out our Feminist Post, and she warned the organisers (not me personally) that she wouldn't have been interviewed.

She participated intensely and personally in the struggle of Italian transsexuals in the early 1980s, a victorious struggle for their rights; she has been a supporter of the LGBT movement from the very beginning; and, more, those who "explained things" to Rebecca Solnit, to quote a famous book of hers, explained them very badly. Nonetheless, I find her decision depressing but at the same time enlightening, because perhaps it explains well how it is America today, and in the end it was the result we wanted to achieve. 

A place of exasperated identity politics, of tribes in permanent conflict, where two women cannot talk openly and publicly to each other because, according to one of them, their feminisms are not compatible.

To 'Call Them by Their True Names', quoting a title of Solnit again, the name of this thing is 'gag' and it does not at all resemble what she writes in her essays: I have read them all even though, as those who proposed me to interview, I could not say that Solnit is exactly my passion. But Solnit is certainly an eminent voice, she has a large following, and it seemed interesting to me to have a dialogue with her.

We have already experienced the no-debate practised with firmness by the LGBT world, we have also experienced it in Italy with the supporters of the Zan bill who have methodically avoided any confrontation: but I would not have expected this from Rebecca Solnit.

Perhaps if, in addition to the essays, I had read this article of hers from a year ago, published by the Guardian, I would have been less surprised today at the discourtesy I received:

"... trans women do not pose a threat to cis-gender women, and feminism is a subcategory of human rights advocacy, which means, sorry, you can’t be a feminist if you’re not for everyone’s human rights, notably other women’s rights. (...) There is no one-size-fits-all definition of what a woman is; some of us are born with absent or divergent personal parts, or with chromosomal or hormonal anomalies; (...) It’s not about having a uterus or breasts or periods or about giving birth, because women are not breeding stock (and, sorry I can’t stop boasting about my city: the first man to give birth was in San Francisco). Some of us had mastectomies or hysterectomies or in the case of Angelina Jolie, who I’m pretty sure everyone accepts as a woman, both; and so many other variations exist.”

I wondered in which cases I would refuse to have a public dialogue with someone. Normally, being a person curious about others, I do not shy away. Perhaps I would do so if my interlocutor had previously seriously offended me, or if she were an avowed Nazi. I don't think I fall into this category, even if Judith Butler, Solnit's fellow citizen, in a recent and much discussed article in the Guardian in which she stated that the category 'woman' should be redefined, defined gender-critical feminists as neo-fascists (we will talk about this article again in the coming days, or rather Pakistani feminist Bina Shah will talk about it). Solnit probably sees it as Butler does.

Anyway: these are the questions I would have asked Rebecca Solnit, for those who want to get an idea: do you see anything offensive or disrespectful in them? Not talking to each other is always the worst option.

1. Thinking about this meeting, I imagined we would be talking about America. On this day, twenty years after the Twin Towers. But I never imagined that we would have to talk about the America that not even a month ago left Afghanistan, with all that followed. If Rebecca agrees, I would start right here. I'd like you to tell us in your own words about post-Kabul America, and in particular about how American democrats are experiencing President Biden's initiative and the colossal domino effect that this initiative is having on the international stage, starting with the enormous humanitarian problem that Europe is facing...

2. Remaining in America: in Europe we have always known that the long wave of what happens there always reaches us, it is only a matter of time. But the American reality of these times is particularly difficult to decipher and interpret: we have witnessed the Capitol Hill revolt in astonishment, we see racial tensions escalating, the entrenchment of identity politics... If you had to point which facts we should pay attention to in order to understand America today and the direction in which it is moving, which ones would you indicate?

3. Your autobiography is intertwined with an awareness of the violence that, in all its forms, every woman has to deal with simply because she was born a woman. In some way, your whole life, since early childhood, has been marked by a struggle with this reality of violence. In the book, you talk about your tendency, since childhood, to hide in order not to be seen, following the instinct of survival. Today you are one of the most visible women on the intellectual scene, and not only in America. You don't hide anymore. Was there a moment in your life when you realised that hiding was no longer necessary? Where do you draw the strength to escape from male domination?

4. You say that many girls have the desire to be men, to identify with men, to be where the power is. It has always been the first movement of emancipation, to try to be like men, to enjoy their own freedom. Today there is an increasing number of girls who try to realise this desire in their own flesh, I am talking about the growing phenomenon of young FtM transsexuals. You, who have lived intensely the queer culture, to which you declare yourself indebted, know very well that FtMs have always been a rarity, but today they are 7-8 cases out of 10 of transition. How do you read this phenomenon?

5. In your acknowledgements you mention gay culture. I would like to ask you a question about that, and also one about San Francisco. The relationship between women and feminism and the gay and queer world has always been one of exchange and mutual support. Today there are many indications that this relationship has soured, becoming difficult and even confrontational, the JK Rowling case speaks for all, but there are also Judith Butler's anti-feminist invectives, the conflict over gender identity, and so on. What caused this painful estrangement? Is today's queer the same queer you claim to be indebted to? And where are the reasons for a resumption of dialogue to be found?

6. You dedicate many loving pages to San Francisco, especially in “Call them by their true names”, and you talk about its formidable gentrification. Once the global capital of the creative counterculture, San Francisco is now the driving force behind what Shoshana Zuboff calls surveillance capitalism. There, in Silicon Valley, lives and operates the richest, most pervasive, unregulated and invincible capitalism known to human history. How was this evolution possible? Are there elements that link that counterculture with the possible risk of anti-democratic drift that this capitalism brings with it?

7. One thing you repeatedly say is that the signs of change always arise at the margins and in the shadows, and that they progressively move towards the centre with a karst movement, which is not always easy to read. The real story to be told, in short, must be carefully sought out. And it invites us to grasp and promote change without letting ourselves be overcome by cynicism and distrust. What are the signs of change you are most interested in today?

8. One device of resistance and struggle, you say, is precision in the use of words. You say that we are going through a real crisis of language, a deregulation of meaning with important political consequences. It seems to me that social networks, which for reasons of profit have every interest in promoting fake news and shifting the boundaries between true and false, are one of the main battlefields of this work on words that Italian feminism of difference has always called "work on the symbolic". How and where is this political work done?

9. An excellent example of the political power of words is a neologism of your own invention, in the book ‘Men Explain Things to Me’. This neologism, mansplaining, has not only been included in the Oxford English Dictionary, but has become part of the lexicon of women all over the world (p. 220). The simple naming of this experience, habitual for every woman, immediately became an instrument of resistance. Do you have anything to tell us about this?

10. Another device of resistance and struggle that you point to, a place where change is produced, is the closeness of bodies that cannot be replaced by virtual relations. You also refer to simple neighbourly relations, to people one meets while walking - a practice you have written a lot about - or shopping in the shops around the house. Perhaps they could be called weak links, but they have great potential for strength and change. The pandemic has challenged us in this way. Do you think it has left a lasting mark on human relations, that this co-presence of bodies is definitively compromised?

11. Still on the subject of coping devices, you say very important words about anger, you explain that it is hostile to understanding and that it can be a serious obstacle to promoting change. We live immersed and engulfed in anger, much of which is induced precisely to paralyse us. But you explain: 'Although it is a common belief that anger drives (change, ed.), in hanging out with activists of all kinds I have found that militancy is usually driven by love'. Can you give me an example of a transformative practice inspired by love?

12. One of your important fronts of engagement is climate change, which you describe as violence on a global scale. The first time this was discussed was at the Club of Rome, 1968. Let me observe that the Americans have not exactly been in the forefront. I still remember being stunned, in a cold New York winter, to see from the window of my hotel people moving around half-naked in their flats, with the heating on a thousand. Now, after the terrible hurricane Ida, Biden seems to have announced his definitive commitment on this front. Do you think we are really at a turning point?

13. The last question: from your point of view, what is the most important story to tell today? Can you tell us in advance what you are working on?


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