Covid-19-The Great Reset (Klaus Schwab e Thierry Malleret, Forum Publishing 2020: non c’è ancora traduzione italiana) illustra il progetto di ricostruzione del mondo dopo il Coronavirus (BC). Non credo che quello sarebbe il mondo in cui mi piacerebbe vivere.
Il punto di osservazione: Schwab è fondatore e presidente del World Economic Forum –il testo è formalmente la proposta del WEF per la ricostruzione post-pandemia e sarà al centro dei dialoghi di Davos 2021- mentre Malleret è manager di Monthly Barometer, società di analisi predittive riservate a investitori privati e grandi corporation.
The Great Reset si avvia con un’excursus pedestre e frettoloso sul concetto di complessità. E mette subito i piedi nel piatto: si tratta di “trarre vantaggio da questa opportunità senza precedenti di reimmaginare il nostro mondo”. L'era post-pandemica si baricentra su un’economia “sostenibile”, ricettiva delle problematiche ambientali, il cui principale attore sarebbe un “capitalismo responsabile”.
Tra i grandi sponsor del Great Reset il principe Carlo d’Inghilterra, il premier canadese Justin Trudeau e primo fra tutti il neopresidente Usa Jo Biden con la parola d’ordine “Build Back Better”, ricostruire meglio.
Sull’altro fronte i detrattori del progetto: trumpiani- una buona metà degli americani a prescindere dai destini di Trump-, estrema destra suprematista, complottisti alla QAnon, una quota dei conservatori in Usa e Canada. Un ampio schieramento per il quale The Great Reset non sarebbe altro che un piano delle “élite finanziarie globali” per il controllo degli Stati, realizzando una distopia di stampo marxista-ecologista con forti restrizioni delle libertà individuali (di cui il lockdown contro il Covid costituirebbe la prova generale: peggio, la pandemia sarebbe stata scatenata volontariamente proprio allo scopo di instaurare il nuovo modello) fino all’abolizione dei diritti di proprietà.
Non trovo il mio, il nostro spazio di donne né tra i progressisti del Great Reset né tanto meno nella destra complottista. E del resto a quanto pare il Grande Reset non ci riguarda: le donne sono menzionate incidentalmente e una sola volta, in quanto vittime dell’incremento di violenza domestica durante il lockdown. Il punto di vista è anacronisticamente e ostinatamente neutro, come se la distruzione del pianeta, l’onnipotenza del mercato nella regolazione delle cose umane, la finanziarizzazione dell’economia, i danni della globalizzazione sregolata, l’arricchimento dei pochissimi a danno dei moltissimi (e in particolare delle moltissime) non sia stato e non continui a costituire un modello concepito, sostenuto e praticato quasi esclusivamente da umani di sesso maschile ( + una piccola schiera di ancelle ed epigoni).
Su quali basi poggerebbe la fiducia che questo modello sia in grado di autoriformarsi, producendo un capitalismo responsabile e sostenibile? L’unica vera base, mi pare, è la paura. Paura che le ingiustizie e le disuguaglianze possano compromettere la coesione sociale fino al rischio di rivolte di cui il movimento Black Lives Matter ha offerto un assaggio. Rivolte che potrebbero estendersi fino a mettere a rischio i mostruosi e insensati profitti dei pochissimi: questo è ciò che conta.
“Nell’era post pandemica” si legge “il numero dei disoccupati, angosciati, miserabili, risentiti, malati e affamati potrebbe crescere a dismisura”. In un mondo del genere “l’ostentazione della ricchezza non sarebbe accettabile”. E poi ci sono i giovani estromessi dal mercato e dalla politica che hanno ricominciato a mobilitarsi. Il contratto sociale potrebbe saltare.
Tanto vale quindi fare di necessità virtù, senza illudersi sulla possibilità di un ritorno al “business as usual”. E concepire uno stakeholder capitalism in cui tutti i soggetti –compresi i lavoratori- abbiano qualche voce in capitolo, trovino un minimo vantaggio e qualche garanzia in più, e in cui la produzione non solo sia maggiormente rispettosa degli equilibri ambientali, ma sappia riconvertirsi su beni maggiormente durevoli a fronte di un diffuso sentimento anticonsumistico.
“Esiste” si legge “la consapevolezza collettiva del fatto che senza una maggiore collaborazione non sapremo affrontare le sfide globali che abbiamo di fronte… Se come esseri umani non collaboreremo per confrontarci con certe sfide esistenziali –l’ambiente e la caduta libera della governance globale, per dirne alcuni- saremo condannati”.
E tuttavia i fondamentali del “business as usual” –la crescita, il profitto- restano esattamente gli stessi. Quelli vanno salvati a ogni costo, e come potrebbe essere diversamente?
The Great Reset è un classico caso di effetto T.I.N.A (There Is No Alternative): qualcosa deve per forza cambiare perché nulla -o quasi- cambi. Il richio è di lasciarci le penne, e i primi a lasciarcele saremo proprio noi che da tanta ingiustizia, da tanta sofferenza di donne e uomini abbiamo tratto enormi profitti personali. Un timido riformismo obbligatorio, giusto lo stretto necessario. Un po’ come le piste ciclabili nelle città: sempre meglio di niente, anche se in ritardo di almeno un decennio. Ma questa minima riduzione del danno –a cominciare dai danni prodotti dalla globalizzazione senza limiti che è all'origine del risentimento populista e sovranista- è davvero una soluzione? Potrà forse salvare il più dei profitti: ma cosa ne sarà delle nostre vite?
Quella che oggi chiamiamo economia è solo un manufatto umano maschile. Non realizza leggi naturali e immutabili, semmai prova a sovvertirle intendendole come limiti e impedimenti alla massimizzazione dei profitti: uno dei più clamorosi e drammatici risultati di questa sovversione è proprio la situazione che stiamo vivendo. Il mantenimento del livello di crescita e di profitto resta il challenge universale sia per i promotori del Great Reset sia per gli oppositori della destra neo-neoliberista. Il mondo continua a essere sottratto allo sguardo femminile. Penelope non è ancora arrivata a Davos (Ina Praetorius). A lei non è ancora permesso di "reimmaginare il mondo". La trasformazione non si realizza nemmeno in questa occasione estrema. Il “soggetto imprevisto” che invece -lei sì- le leggi di natura avrebbero collocato al centro del mondo, resta fuori dalla scena.
The Great Reset avverte che se non si fa qualcosa il mondo potrebbe diventare “un posto molto pericoloso”: la globalizzazione minacciata da sovranismi e nazionalismi, la perdita di potere delle istituzioni internazionali, la nuova guerra fredda fra Usa e Cina. La sapienza femminile condivisa e senza confini, vera alternativa alla globalizzazione mercantile selvaggia, non viene presa nella benché minima considerazione. La vera trasformazione non è nei piani. Il mondo continua a coincidere con l'economia. La salvezza del mondo con quella del "drago fumante" (Guido Ceronetti). Lo sguardo è e deve restare lo sguardo neutro maschile, in partnership con la logica pelosa dell’“inclusività”: che senso avrebbe riferirsi alla differenza sessuale quando oggi disponiamo della più funzionale "identità di genere"?
Si tratta di cedere una quota marginale di dominio: “Covid-19 ha riscritto molte tra le regole del gioco tra pubblico e privato. Nell’era post-pandemica il business sarà soggetto a un’interferenza dei governi maggiore che nel passato”. Per le cittadine e i cittadini (i lavoratori-consumatori) si tratta invece di cedere un'ulteriore quota della propria libertà. Saranno un po' meno sfruttati e un po' più garantiti se si sottoporranno a un tracing & tracking perpetuo, in stile cinese o coreano (lo stile che non piace allo Sciamano e ai suoi amici). Il mondo delineato dal Grande Reset sembra voler prolungare a tempo indeterminato alcuni effetti prodotti dalle strategie anti-Covid e non somiglia affatto a quel "cambio di civiltà" di cui spesso parliamo.
Due esempi. Il primo ha a che fare con la questione della salute. Automazione, digitale, innovazione tecnologica investiranno anche la cura. The Great Reset magnifica le prospettive della telemedicina e immagina una sorta di consolle domestica da attivare per ottenere diagnosi e terapie in remoto (una gran parte della nostra vita resterà in remoto: una buona quota di istruzione e lavoro, vita "sociale", attività culturali, ricreative e sportive, continueremo a passare un bel po’ di tempo chiusi in casa). Tornando alla telemedicina: una logica di totale spersonalizzazione della cura è quanto di più lontano ci sia dall’esperienza femminile. Nessuno meglio delle donne sa che la cura è nel corpo-a-corpo della relazione, che tutto il resto –analisi, dispositivi diagnostici, in un certo senso perfino i farmaci- sono solo mezzi della relazione che cura. Ogni uomo cresciuto e tenuto in buona salute dalle donne ha esperienza di questa sapienza femminile. Il Grande Reset va da tutt'altra parte.
L’altro esempio ha a che vedere con il tracing & tracking e con il capitalismo “buono” e politicamente responsabile. Dopo l’assalto a Capitol Hill Facebook e Twitter hanno sospeso a tempo indeterminato gli account di Donald Trump. Attraverso un uso compulsivo dei social, il presidente uscente ha istigato la piazza dei rivoltosi e i capi dei network hanno deciso di togliergli il megafono: intervento d’urgenza che può apparire di buon senso e in parte senz’altro lo è. Su Twitter Trump contava 81 milioni di follower. Ma guardiamo la cosa per quello che è: i padroni di queste colossali corporation hanno preso in totale autonomia una decisione di enorme importanza politica. Nessuno ha mai candidato ed eletto Mark Zuckemberg, imprenditore privato che tra l'altro dispone a piacimento di miliardi di dati su noi tutte e tutti: attualmente in corso un aggiornamento di Whatsupp che consentirà, almeno negli Usa, un migliore uso dei dati degli utenti a fini di marketing. Eppure Mark Zuckemberg, in totale libertà, può assumere decisioni politiche di rilevanza planetaria. Le sue aziende saranno anche più eque, più green e più rispettose dei diritti dei lavoratori, come auspicato dal Great Reset. Ma qui abbiamo un problema che non può essere ignorato. I meccanismi della rappresentanza saranno anche usurati e logori, ma sembrano tuttavia offrire qualche garanzia in più rispetto all’arbitrio assoluto di singoli onnipotenti imprenditori privati. Che Trump sia fuori dai social potrà fare piacere, ma va detto che la stessa ostracizzazione è toccata, per esempio, anche a molte femministe gender critical che resistono al pensiero unico, e sempre per insindacabile giudizio politico dei padroni delle corporation.
Il nuovo mondo post-Covid delineato dai progressisti di The Great Reset, e che trova in Jo Biden il suo massimo interprete politico, non somiglia affatto al cambio di civiltà che abbiamo immaginato.
Dov'è, allora, il nostro posto di donne? Qual è il nostro piano per il mondo?
Marina Terragni