Qualche tempo fa sul blog “Papà per scelta” un video con due bambini e i loro due padri che facevano gli auguri di Natale via Skype alla loro“mamma surrogata” (belly-mummy) oltreceano. Tutto perfetto, bambini sorridenti, padri premurosi, casa natalizia, doni, la belly-mummy, la mamma-pancia in collegamento con i suoi figli e il marito: una “grande famiglia allargata”, recita la chiusura del video.
Molti commenti esprimono perplessità per questa narrazione di assoluta felicità: non basta certo Skype a sanare la ferita della separazione dalla madre. Altri invece edificano un muro di solidarietà verso i due uomini, soprattutto da parte di giovani donne.
Perché le ragazze empatizzano così facilmente con i committenti di utero in affitto, soprattutto se gay? Perché invece nessuna empatia nei confronti dei bambini a cui è stata tolta la madre, né della donna che ha ceduto il proprio corpo –immancabilmente in cambio di denaro- per la gestazione e il parto, elogiata anzi per la sua “libera scelta”?
Gli argomenti razionali non trovano spazio nella discussione, la solidarietà di molte ragazze verso i “due padri” appare istintiva, viscerale, indiscutibile. Si tratta almeno in parte di un automatismo: i diritti rivendicati dal mondo LGBTQ+ non possono essere contrastati, soprattutto se sei moderno, progressista e di sinistra. Chi lo fa è di destra, e quindi per principio ogni discussione è troncata sul nascere.
Ma sicuramente c’è altro –ed è poi la questione principale-: le difficoltà delle giovani donne con l’idea della maternità. Il piano è quello della maternità simbolica più che quello delle madri reali, le donne che ci hanno messo al mondo, che ci hanno cresciuto e magari ci sono ancora accanto nella vita di tutti i giorni. Magari per nostra fortuna abbiamo avuto una madre “sufficientemente buona” (Donald Winnicott), il più delle volte fortunatamente va così. Ma non vogliamo né possiamo identificarci in lei, difficoltà che cresce di generazione in generazione, anche se le madri reali delle ventenni di oggi sono sicuramente diverse da quelle di chi ha vissuto il Femminismo negli anni 70.
Chi è madre oggi è stata figlia dal ’68 in poi, ha assorbito e vissuto una forte idea di libertà, di solito ha studiato, lavora, ha una vita sessuale molto più attiva e consapevole. Un salto enorme rispetto alle madri della generazione precedente. Eppure per le figlie di queste donne lo stereotipo della madre oppressa e perdente continua a essere molto vivo. Ed è in parte giustificato dalla solitudine e dalla fatica che hanno visto, dalla mancanza di aiuti, dalle delusioni sentimentali a cui hanno assistito, dalla scarsa considerazione sociale per il ruolo materno che hanno osservato. La vita reale è fatta di donne che abbandonano definitivamente il lavoro dopo il secondo figlio e anche al primo parto, con l’amarezza e la frustrazione di dipendere da altri per tirare avanti. Come aspettarsi dunque che le ragazze vedano nella maternità modelli positivi di autorealizzazione?
La madre “surrogata” invece è un modello di “autoimprenditorialità” femminile, una che usa la maternità a proprio vantaggio, non la subisce come destino obbligato ma la sceglie come fonte di reddito e dà la possibilità a nuove famiglie, davvero diverse, davvero libere e moderne, di realizzare i propri progetti. Di lei non si vedono le fatiche fisiche e psicologiche, i rischi per la salute né lo stato di bisogno –piccolo o grande- che l’ha spinta a prestare il proprio corpo e a separarsi dalla creatura. Si tratta di una che ha scelto, che esercita un proprio “diritto”, che è madre ma non lo è, o meglio lo è in modo moderno e “per altri” che non potrebbero esserlo, nel caso dei gay perché sono maschi. Le argomentazioni non sono così lontane da quelle che vengono utilizzate per difendere il diritto a vendere il proprio corpo in prostituzione: lì è “sex work”, qui è “mother work”.
Da questi argomenti manca la consapevolezza dei corpi che appaiono disincarnati e smaterializzati. In fondo la Gpa è solo una "tecnica" altamente medicalizzata: spermatozoi che fecondano ovuli ceduti per denaro da una giovane donna portatrice di un ottimo fenotipo (bella, con un alto QI e un buon livello di istruzione), sottoposta allo scopo a una rischiosa terapia ormonale e a un doloroso prelievo chirurgico. E poi l’embrione impiantato in un altro corpo anch’esso normalmente destinato a scomparire dalla scena, privo di particolari qualità genetiche. Anche questo corpo sottoposto a terapie ormonali per accogliere la gravidanza “innaturale”, un corpo che pare non soffrire mai, né rischiare l’aborto spontaneo (il “prodotto del concepimento” è geneticamente del tutto estraneo a quello della donna), né una gravidanza anomala, né correre pericoli al momento del parto. Niente sangue, niente dolore, nessuna sporcizia. In buona parte dei casi il bambino viene fatto nascere in maniera “pulita” con taglio cesareo programmato. Un corpo-macchina che non sente (come quello alienato delle donne prostituite), non palpita, non urla. Niente viscere, sangue, lacrime.
Forse solo una domanda potrebbe turbare le certezze di queste ragazze: tu doneresti i tuoi ovociti? E perché allora non lo fai, se ti pare un atto di grande generosità? La legge lo consente. E un’altra: la legislazione italiana vieta la maternità surrogata, ma è già capitato –anche in Italia- che un Tribunale consentisse una gestazione per altri: che cosa ti impedisce di metterti a disposizione?
Francesca Cirelli e Anna Perenna