L'uccisione di Alessandra Matteuzzi, la donna bolognese ammazzata dall'ex a martellate e a colpi di panca di ferro, è la rappresentazione plastica e perfetta della dinamica di ogni femminicidio.
Giovanni Padovani non è pazzo, non è un drop out, è un giovane uomo in perfetta forma, inserito nel mondo, addirittura testimonial di campagne contro la violenza sulle donne. Insomma non l'avresti mai detto, come quasi sempre.
Alessandra è sottoposta a vessazioni continue e inaudite: deve giustificare ogni movimento, ogni respiro, è costretta a inviare video ogni 10 minuti perché lui sappia sempre dove si trova, con chi, com'è vestita, che cosa sta facendo. Lui si impossessa dei suoi profili social per controllare anche la sua vita online e le chiede di eliminare tutti i contatti maschili. Lei cerca di assecondarlo "per non scatenare la sua rabbia", finché non ce la fa più e decide di lasciarlo. Lui non tollera l'abbandono, la perseguita in ogni modo, si introduce in casa di lei passando dal terrazzo, stacca la luce del condominio dove lei abita per costringerla a uscire, la tormenta con continue telefonate, le tende continui agguati. Lei si convince a denunciare, è terrorizzata, ma come si sa alla denuncia non seguono immediati provvedimenti restrittivi. Lui parte per Bologna con un martello nello zaino, determinato a chiudere la vicenda a modo suo. La intercetta mentre lei sta rientrando a casa, al telefono con la sorella per autoprotezione, la aggredisce brutalmente fino a ucciderla. Una vicina di casa si precipita per soccorrerla, ma non riesce a fermarlo. Lui vuole ammazzarla e ci riesce.
"Non salterà il mondo se l'uomo non avrà più l'equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione" ha scritto Carla Lonzi nel suo Manifesto di Rivolta Femminile. La "malattia" è presente fin dal principio: riuscire a stare in piedi solo se hai qualcuna da controllare e opprimere, il calcagno sul suo collo, il terrore cieco della sua libertà. Lei si sottrae al controllo e tu cadi rovinosamente, la tua identità si sgretola: una morte simbolica. Come chi sta affogando, ti attacchi al collo di lei che ha voluto liberarsi, la trascini a fondo sperando che la sua morte ristabilisca il tuo equilibrio. Lei non c'è più, ma non perché ti ha lasciato, non per sua volontà, ma per la tua. Finalmente hai ripreso il controllo che avevi perduto.
Il femminicida non "perde il controllo" ma lo ristabilisce.
La lotta contro la violenza degli uomini sulle donne non sta funzionando e i femminicidi non diminuiscono perché si continua a tenere gli occhi puntati sul fatto terminale (l'acting out nel gesto violento, in molti casi fino all'uccisione) che in realtà è solo un dispositivo e una funzione del dominio, serve per ribadirlo e ristabilirlo di continuo, con un lavorio estenuante. La questione è il dominio degli uomini sulle donne, è qui che si deve puntare lo sguardo senza lasciarsi distogliere dai particolari in cronaca di ogni singolo caso. La partita è sempre la stessa e non cambia mai.
Si tratta di trovare la strada in direzione di un modo di stare al mondo da uomini che non si basi più sulla sottomissione delle donne. Che non richieda più la morte simbolica delle donne -in molti casi fino alla loro morte reale- per garantirti un'onorevole esistenza secondo le regole non scritte del patto tra uomini o contratto sessuale.
Non sono pochi gli uomini che si sono già avviati lungo questa strada di trasformazione e si deve sperare in loro.
Marina Terragni