Sul ddl depositato da Maurizio Gasparri per modificare l’articolo 1 del Codice civile e introdurre nel nostro ordinamento il riconoscimento della capacità giuridica al concepito "con l’intento di prevenire l’aborto volontario, in qualsiasi forma, legale o clandestino che sia” si possono dire almeno tre cose.
La prima: è altamente improbabile che il ddl arrivi nelle aule parlamentari. L'immediata conseguenza della sua approvazione sarebbe la sostanziale inapplicabilità della legge 194 perché l'aborto equivarrebbe di fatto a un omicidio. Nessuna delle forze di maggioranza -secondo quanto ripetutamente dichiarato dai leader- intenderebbe modificare la legge che regola l'interruzione volontaria di gravidanza. La mossa di Gasparri va pertanto intesa come un dispetto in extremis a Meloni e come smania di ricomparire sui media in seguito allo smacco di non essere stato considerato per le nomine alla Camera e al Senato.
Ma le cose importanti sono altre.
Il concepito non può essere definito persona giuridica per semplice il fatto che non è propriamente persona, in sostanza non sarà un individuo fintanto che non potrà vivere autonomamente fuori dal grembo materno (le nuove tecnologie mediche perinatali oggi possono consentire la sopravvivenza anche a un feto partorito dopo 5 mesi di gestazione, ma non prima di questa data). Perché il feto possa essere definito vita umana serve dunque sì della madre che accetta di condurre la gravidanza. Se questo sì non si produce per le più svariate circostanze, di fatto non vi è possibilità di nuova vita. Si tratta di un fatto sul quale si può disquisire e ragionare, e che rende problematica, portandola fuori dal diritto, la datazione dell'inizio-vita, ma resta un fatto: non si può prescindere da questo sì che fa cominciare una vita a meno di coartare la donna intendendola come un contenitore muto e passivo, da sempre il Graal del patriarcato.
Da ciò consegue una paradossale identità di vedute tra gli integralisti prolife, determinati a esautorare la donna intendendola come un contenitore e non come soggetto libero di scegliere ("glielo impediamo", ha chiarito la sua posizione l'ex-senatore Pillon) e gli utenti e i promoter di utero in affitto, in cui la parte della donna è quella del mero "forno", privata per contratto di ogni libertà di decidere per se stessa e per il nascituro. Vecchi patriarchi i primi, neopatriarchi i secondi, comprese quelle associazioni gay che nei loro Pride rivendicano il diritto di accesso a un utero in cambio di soldi: come ci si sente a stare dalla stessa parte dei prolife (e viceversa)?
Marina Terragni