Nel corso dell’apertura a Milano del “Women’s Forum G20 Italy” la Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti ha annunciato il progetto di allungare gradualmente il congedo di paternità obbligatorio dagli attuali 10 giorni a 3 mesi, nell’ambito del “Family Act".
Il prolungamento - e in alcuni casi la parificazione - dei congedi dei padri e delle madri si presenta come una politica progressista finalizzata a raggiungere una maggiore “parità tra i sessi” in famiglia e nel lavoro, oltre a incoraggiare una condivisione dei carichi di cura che oggi gravano sulle donne in modo sproporzionato e spesso senza riconoscimento né formale né materiale.
In riferimento all’allungamento del periodo di congedo obbligatorio dei padri dopo la nascita di una figlia/o, Bonetti dichiara l’obiettivo di "parificare la responsabilità maschile a quella femminile". In un momento storico in cui il concetto di “diritti” viene esteso fino a nominare i più svariati desideri individuali, è certamente apprezzabile l’accento posto sul concetto di responsabilità. Anche nell’ambito della genitorialità ha infatti trovato spazio un discorso sui diritti che rappresenta prevalentemente i desideri degli adulti, raramente centrati sulle bambine/i. Per esempio il ricorso all’utero in affitto e alla fecondazione medicalmente assistita viene rivendicato come “diritto” che lo Stato dovrebbe garantire, sorvolando sulle ragioni del business e sulle implicazioni in termini di morale e di salute fisica e psicologica per donne e bambine/i.
Tornando alla misura di cui si discute, nelle linee dell’attuale Governo e nel PNRR si menziona spesso la necessità di aumentare l’occupazione femminile per raggiungere la “parità di genere”. Negli anni Settanta il femminismo ha criticato il concetto di '“emancipazione” e di “parità” che finiva per proporre l'omologazione al modello maschile, negando la libera espressione della differenza femminile. Una lezione che oggi appare dimenticata, anche se offrirebbe spunti utili a capire per quale ragione molte politiche “dalle buone intenzioni” paritarie non stanno producendo il cambiamento sperato, ma si limitano ad incoraggiare le donne a "essere come gli uomini", aderendo a un modello ancora saldamente maschile e patriarcale.
L’aumento del tempo di congedo obbligatorio ai padri servirebbe, secondo i sostenitori, a ridurre per le aziende i costi relativi all'assunzione di una donna (neo madre e/o potenziale neo madre) rispetto a quelli un uomo (neo padre e/o potenziale neo padre). L’efficacia di questa misura andrebbe valutata ex-post: la cura e i carichi familiari non si esauriscono dopo i primi tre mesi di una figlia/o e non riguardano solo le donne che hanno figlie/i. Sarebbe opportuno un dibattito per considerare i motivi per cui i congedi volontari oggi non vengono utilizzati dai padri e quindi se l’obbligatorietà di questa misura possa contribuire a scopo “educativo” o invece a cambiare gli equilibri di potere che generano la maggior parte delle ingiustizie subite dalle donne in ogni parte del mondo.
Se è vero che “per crescere un bambino ci vuole un villaggio” questa misura potrebbe forse andare anche nella direzione di ridurre la solitudine fisica e morale sperimentata dalle donne che diventano madri in Occidente. In ogni caso, parificare anche solo verbalmente il padre e la madre nei primi mesi di vita rimane un obiettivo figlio di una impostazione culturale votata al neutro, tutta da discutere e da mettere alla prova.
Per generare un cambiamento occorre invece riconoscere in pieno la differenza, esplorarla per riformare nel concreto il modello tenendo conto della libera espressione della differenza femminile, differenza che fonda l'umano e chiede di poter plasmare il mondo, domestico e pubblico.
Se non riconoscono la differenza, le politiche della parità rischiano di diventare delle "politiche dell'indifferenza", ingiuste e iscritte nel solo ordine simbolico maschile.
Veronica Tamborini