Sono ormai quasi due mesi che è iniziata la rivolta delle ragazze iraniane contro il velo, un'onda incontenibile che ogni giorno produce di nuove immagini, nuovi contenuti, una ventata di aria fresca rispetto a certe narrazioni sulle donne nel mondo islamico, ma anche uno specchio che rivela quanto di artefatto ci sia dietro tante parole d’ordine politicamente corrette del femminismo intersezionale o transfemminismo.
Primo: il velo non è una libera scelta né tantomeno quell'empowerment femminista su cui ci bombarda da anni la sinistra occidentale e liberale, che da troppi anni ormai sostiene e promuove la diffusione e la glamourizzazione di questo "indumento" (sempre più diffuso nelle giovanissime nelle scuole, tanto qui da noi quanto in Francia, dove la partita identitaria ha raggiunto picchi drammatici), con il sostegno più o meno esplicito a gruppi dell’Islam radicale.
Fino a un paio di anni fa le nostre politiche in visita in Iran o che ricevevano a Roma membri autorevoli di quel regime teocratico, ostentavano un devotissimo e modestissimo velo nonostante le dure proteste anti-velo delle prime martiri (il nome è questo) di una causa che oggi scuote alle fondamenta l’Iran. Da qualche giorno ecco la nuova e creativa forma di protesta di quelle straordinarie ragazze che vengono riprese e fotografate mentre colpiscono alle spalle i mullah facendo cadere nella polvere il turbante e scappando via: un gesto geniale, irriverente, genuino, anarchico, scorrettissimo che di sicuro rimarrà nella storia
Niente chiacchiere, niente proclami, un gesto semplice, spontaneo, quasi infantile, davvero iconico. Molto più di tante inutili parole.
Secondo: le iraniane chiedono diritti “normali”, vivere, studiare, lavorare, muoversi, niente sex work is work, uteri in affitto, ormoni ai bambini, pornografia femminista ed altre amenità sulle quali da noi ci si dilania. Figuriamoci se le scalfisce la paura di sembrare politicamente scorrette, fatto che da noi paralizza perfino il pensiero: hanno capito benissimo che i patriarchi, con o senza barba, sunniti o sciiti, laici o religiosi, conservatori o progressisti, sono tutti uguali nell’opprimere, picchiare e uccidere le donne. Niente occhi bassi, “modest fashion” o moda halal tanto cara agli stilisti occidentali che si fregano le mani per un mercato colossale, niente influencer “autodeterminate” che insegnano alle proprie followers come acconciare il proprio strumento di oppressione in modo vezzoso e cool: loro lo strappano via, gli danno fuoco.
Terzo: i capelli. Nei primi giorni della protesta tutte incantate dal gesto trasgressivo delle sorelle che si tagliavano i capelli in piazza, subito imitate da attrici, cantanti e giornaliste occidentali che in realtà hanno spuntato le proprie chiome solo di pochi centimetri. Foto e video ci mostrano trecce, boccoli, acconciature che non vedevamo da quasi un secolo, dai tempi delle “maschiette” che rivendicavano testine moderne e pratiche, caschetto e frangia corta. Qui al contrario la libertà si avvale dell’esibizione di chiome degne di Dee antiche, pazientemente curate di nascosto e ora ostentate come orgoglio, sfida ad un potere maschile che le vede con desiderio da temere per la sua distruttività, potentissimo strumento di seduzione e dunque perdizione per gli occhi dei pii difensori della morale e del buoncostume.
Quarto: la bellezza. Nei video e nelle immagini e iraniane sono bellissime, e questo squaderna tante nostre convinzioni e pregiudizi sul fatto che il femminismo spesso chieda la rinuncia alla bellezza intesa come cedimento al desiderio maschile. Una storia che viene da lontano, che ci lacera nel profondo e ci divide: Gloria Steinem ricordava quanto la sua avvenenza sia stata per lei un vero handicap, che diminuiva la sua credibilità. Per liberarci dalla morsa patriarcale dovremmo rinunciare alla bellezza che leggiamo come stereotipo e subordinazione.
Il movimento delle donne iraniane, radicalmente antipatriarcale, non ha bisogno di questo, né di matrioske baffute o mutilazioni. E nemmeno di tagliarsi i capelli. Quel gesto non significa rinunciare alla bellezza in cambio di libertà.
Le iraniane non parlano di corpi non conformi, il loro corpo è quanto di più conforme e dunque quanto di più pericoloso ci sia . Loro sanno benissimo di essere oppresse proprio a causa di quel corpo sessuato, tanto desiderato, tanto invidiato, tanto temuto dai maschi degli ultimi 5000 anni a ogni latitudine. E hanno capito che questa guerra non la vinceranno nascondendosi, mutilandosi e mortificandosi.
Vanno a testa alta e libera, i loro corpi sono in piazza e nelle strade, corpi diversissimi da come li pensa l'Occidente liberale, corpi sani, non denudati, non esibiti, non mercificati, non pornificati, non mutilati, non ormonizzati. Sguardi limpidi e fieri, visi di una bellezza antica. Vedi queste ragazze e si rivela l'ipocrisia del queer (qui la splendida risposta della scrittrice pakistana Bina Shah a Judith Butler): loro sfidano il carcere e la morte proprio per essere donne.
Anna Perenna