Nell’incerto e perennemente mutevole assetto geopolitico del nostro tempo, nel mezzo di un’agenda politica globale che da destra a sinistra dimentica le donne tradendo, seppur in modi differenti, l’esclusività femminile e la ricchezza della differenza sessuale, la lotta delle donne iraniane ha un che di epico, di commovente. L’uccisione di Mahsa Amini dimostra quanto la questione del “velo come libertà” sia la quintessenza della disonestà intellettuale, della fallacia logica, di un’annosa bugia.
Alla ventiduenne Mahsa il desiderio di “sentire il vento tra i capelli”- per citare il pensiero di Salwa Salem e Masih Alinejad, recentemente ripreso nell’opera “Donne ingannate. Il velo come religione, identità e libertà” di Giuliana Sgrena- è costato carissimo: eppure per tante e tanti intellettuali, politici, accademici si tratta di semplice relativismo culturale, della famigerata “diversità che arricchisce”. Ma un interrogativo deve necessariamente bussare alle porte delle nostre coscienze:
perché ogni causa deve avere sempre la precedenza rispetto alla vita, alla sicurezza e ai diritti delle donne? Perché è ben accetto che i nostri diritti siano il “bene sacrificabile” per antonomasia?
Le proteste nelle strade iraniane continuano e la rivolta miete quotidianamente vittime: anche Hadis Najafi, un’altra ragazza impegnata in prima linea nelle manifestazioni, ha perso la vita in nome della libertà femminile. L’oppressione delle donne iraniane, come quella di cui sono vittime le donne di ogni latitudine geografica, è strettamente legata al loro sesso biologico, che ne sancisce la condanna: non basterà un’autodichiarazione di genere, non basterà loro autodefinirsi “uomini” per smettere di subire violenze e discriminazioni, tra cui l’obbligo di indossare il velo islamico. L’istruzione è in certi casi un miraggio (ad esempio, per le ragazze afghane studiare è un diritto ostacolato con la forza dai talebani: sono oltre trenta le vittime di un attentato terroristico messo in atto in una scuola di Kabul che accettava anche le studentesse); la libertà sentimentale e sessuale un crimine da riscattare col sangue (di recente scoperta le intercettazioni che inchiodano il padre di Saman Abbas, la giovane pakistana fatta uccidere dalla famiglia poiché desiderosa di sfuggire a un matrimonio combinato e di “vivere all’occidentale”): queste ragazze sono state violate fino alla morte in quanto donne, in quanto esseri umani adulti di sesso femminile, e noi non dobbiamo dimenticarlo.
Mentre qui in Italia siamo irrimediabilmente accecati dal morbo del politicamente corretto (che vorrebbe impedire qualsiasi tipo di dibattito critico pena essere accusati di razzismo, omofobia, transfobia, islamofobia, e che vorrebbe trasformare il movimento femminista in un drammatico e costante compromesso con i capricci altrui) l’Iran si è recentemente trasformato (o meglio, ri-trasformato) in un campo di battaglia che mi auguro si estenda in lungo e in largo, in tutto il mondo: le donne iraniane lottano per se stesse e per noi tutte, e noi dobbiamo ascoltare il loro grido, senza tradirle. La loro lotta di liberazione deve diventare anche la nostra, come la loro fierezza e il loro coraggio.
Tagliare i capelli e spezzare le catene, scrivendo una volta per tutte, sulla pietra, che no: l’oppressione non è glamour e non lo sarà mai.
Giorgia Garda
illustrazione di Giuliana Maldini