Si chiama “protocollo olandese” il trattamento di bambini con disforia di genere con bloccanti della pubertà. E si basa su un unico studio del 2006 che introduce il concetto del “cambio di sesso per bambini transgender” e che sarebbe stato finanziato da Ferring Pharmaceuticals, l'azienda che commercializza la triptorelina, il farmaco con cui viene fermato il naturale sviluppo di bambine e bambini. Lo rivela un reportage del giornalista Jan Kuitenbrouwer e del sociologo Peter Vasterman pubblicato recentemente sul NRC Handelsblad, uno dei maggiori quotidiani olandesi.
La triptorelina è un farmaco utilizzato soprattutto nel trattamento di tumori ormone-sensibili, come il cancro alla prostata e il tumore al seno, nel trattamento della pubertà precoce, dell'endometriosi, di fibromi uterini e nella riproduzione assistita. L’uso come bloccante della pubertà è off-label, ma è stato autorizzato in molti paesi anche su pressione del transattivismo. L’AIFA lo autorizza in Italia da alcuni anni.
Gli autori del reportage denunciano che "i fondamenti scientifici del protocollo olandese si rivelano piuttosto traballanti". Come si legge nell'articolo, lo studio è stato più volte screditato a causa della mancanza di un gruppo di controllo, del breve periodo di follow-up, del numero di partecipanti che si sono persi nel follow-up e di altri difetti metodologici fondamentali. Inoltre uno dei partecipanti a questo storico studio è addirittura morto a causa delle complicazioni della cosiddetta chirurgia di "conferma del genere", com’è chiamata nel gergo dei transattivisti.
Ma tutto questo non ha impedito che il protocollo di soppressione della pubertà venisse adottato ciecamente nel mondo internazionale della “medicina di genere” senza che si pensasse agli ovvi rischi per la salute derivanti dall'arresto dello sviluppo in bambine e bambini.
È stato osservato da tempo che quasi tutti i bambini a cui vengono somministrati i bloccanti della pubertà passano all'assunzione di ormoni del sesso opposto e spesso anche a interventi chirurgici ai genitali e al seno. I bloccanti della pubertà non sarebbero dunque un "pulsante di pausa" per dare tempo ai teenager disforici di decidere il loro genere, come sostengono i loro promotori, ma sarebbero invece “una profezia che si autoavvera”, scrivono Kuitenbrouwer e Vasterman.
A ciò si aggiunge il crescente elenco di effetti collaterali di questi farmaci, dall'alterazione della formazione ossea all'infertilità e alla perdita della funzione sessuale. Recentemente la Food and Drug Administration statunitense ha aggiunto l’obbligo di scrivere sull’etichetta l’avvertenza che i bloccanti della pubertà possono causare edema al cervello.
Il reportage registra anche i cambiamenti del fenomeno a partire dalla data di pubblicazione dello studio: nel 2006 il numero di bambini che soffrivano di disforia di genere e cercavano un trattamento medico era irrisorio, e quasi tutti erano maschi. In seguito si è registrato un forte aumento dei casi e il numero di bambine con disforia di genere è cresciuto fino a superare di molto quello dei maschi: le ragazze in età adolescenziale costituiscono adesso la maggioranza dei casi trattati nelle cliniche di genere, in Olanda come in altri paesi. Il punto di svolta si può individuare attorno al 2013, in coincidenza con la maggiore diffusione di smartphone e social media e l'aumento della popolarità del movimento per i “diritti trans”.
Kuitenbrouwer e Vasterman si interrogano sul motivo per cui questo fenomeno riguarderebbe solo le ragazze adolescenti, la fascia demografica notoriamente più suscettibile ai contagi sociali, e auspicano anche in Olanda inchieste indipendenti come quelle condotte in Svezia, Finlandia e Inghilterra che hanno portato i governi di questi paesi ad abbandonare il modello “affermativo” per tornare a un approccio psicoterapeutico al trattamento di queste-i giovani vulnerabili.
Qui il testo del reportage olandese.
Qui la notizia in inglese.
Traduzione di Maria Celeste