Il termine femmicidio viene introdotto per la prima volta dalla criminologa Diana H. Russel per definire quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche misogine.
L’antropologa e politica messicana Marcela Lagarde introduce, viceversa, il termine femminicidio per descrivere “la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.
Entrambe le definizioni mettono in risalto la condizione di subalternità della donna costretta a vivere in una società ancora profondamente patriarcale, circostanza questa che espone a serio rischio l’incolumità delle donne stesse.
Entrambe le definizioni ci portano a pensare che tutti gli omicidi di donne da parte di uomini possono essere considerati femminicidi o femmicidi perché la prevaricazione sociale, economica, culturale che il sesso maschile esercita sulla donna è endemica, indiscutibile, clamorosamente evidente.
Tuttavia, in Italia i dati divulgati dalla Polizia di Stato evidenziano una diminuzione dei femminicidi perché “non tutti gli omicidi di donne" sono ritenuti tali.
Un'interpretazione, questa, estremamente pericolosa che potrebbe portare a una lettura falsata dei dati riguardanti gli omicidi di donne, e che non riconosce e deliberatamente cancella la violenza a cui il sesso femminile è quotidianamente esposto.
Un'interpretazione su cui dobbiamo riflettere e vigilare.